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Giuliano Bacheca, volontario a Karungu

PARTIRE PER CAMBIARE NOI STESSI

“memorie, nostalgia, gratitudine e speranze”

Anche per me, medico volontario in Africa da tanti anni, quando torno a Karungu, in Kenya nel periodo che precede la Pasqua, la quaresima ha sempre caratterizzato un tempo di cambiamento interiore, un percorso di fede, come peraltro era sempre stato per i cristiani di ogni tempo. Sono appena tornato dalla mia recente esperienza di volontariato e cooperazione in terra di missione presso l’ospedale dei PP. Camilliani di Karungu, ove mi reco ormai regolarmente da 15 anni. Ritenendomi per tale ragione un testimone privilegiato dell’Africa e dei suoi eterni e insoluti problemi voglio esternare le mie brevi riflessioni anche se non potrò comunicare  quelle emozioni che sempre si provano quando ci si avvicina alle realtà del Terzo mondo. Sento quasi un dovere far conoscere i bisogni, le sofferenze, i desideri e le speranze di tante persone incontrate durante il mio cammino lungo le difficili strade dell’Africa, riguardanti soprattutto malati e bambini. Sono proprio loro i soggetti ai quali sono maggiormente rivolti il mio interesse e la mia attenzione per gli interrogativi che mi suscitano nei momenti di condivisione. Voglio ricordare come l’Africa rimane tuttora il continente delle grandi contraddizioni e delle ingiustizie, causa prima della povertà e della violazione dei più elementari diritti umani, che si traducono nel sottosviluppo di grandi fasce della popolazione. In particolare desidero parlare a nome dei tantissimi bambini, soprattutto degli orfani dell’Aids che in Kenya, come in altri Paesi africani sembrano diventati le vittime sacrificali e rappresentano la vera priorità e la più grave emergenza nella quale ci si imbatte ogni giorno. Nelle mie ripetute esperienze di medico volontario  ho scoperto l’opportunità di allargare il mio orizzonte, trovando proprio in Africa, tra gli “ultimi”, il significato di grandi valori universali, quali il dialogo senza pregiudizi, l’incontro con l’altro e la solidarietà senza confini.bacheca
L’avventura che io affronto ogni anno nella missione di Karungu, una delle regioni più isolate e povere del Kenya, mi permette di compiere, grazie anche ai missionari che ho conosciuto, quel viaggio di ricerca che rappresenta sicuramente l’essenza e la componente più bella della “missione”. Nelle corsie dell’ospedale e nel Dala Kiye(centro Orfani), ove sono assistiti giornalmente oltre 500 bambini ho avuto il privilegio e la opportunità di conoscere la realtà di quell’Africa più bisognosa di aiuto e solidarietà, ma anche ricca di sogni e speranze. Cosa ho scoperto in tanti anni a contatto stretto con i religiosi camilliani? La chiesa nella sua nuova dimensione, impegnata a fondo nello sforzo per raggiungere le più utili forme di promozione umana e il profondo significato del volontariato per i più poveri e dimenticati, esplicato attraverso la testimonianza della carità. Il sentirmi felice anche per quel poco fatto in favore dei malati e dei bambini orfani, imparando anche da loro. Scoprire che le cose possono cambiare, dando voce e visibilità a chi non l’ha mai avuta e speranza per il futuro. Allora per tutto questo sento che ho avuto la grande fortuna e il “dono” di incontrare chi ha permesso di realizzare il mio volontariato privilegiato, i missionari in particolare cui va tutta la mia riconoscenza e la mia gratitudine.

Giuliano Bacheca

Notizie da Karungu

Come sanno bene i nostri amici, a Karungu abbiamo iniziato un grande progetto di sviluppo agro alimentare e zootecnico per creare sostegno all’ospedale e alla casa dei bambini e stimolare la gente a creare sviluppo per migliorare la loro vita. Abbiamo costruito un grosso allevamento di ovaiole e come vedete ci sono i primi bei frutti che incoraggiano gli operatori e rendono visibili gli sforzi fatti dai nostri donatori. In questo caso la San Zeno Foundation.

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Auguri di Pasqua

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Sviluppo ortofrutticolo per le donne di Karungu

Il progetto è volto ad accrescere la produttività di una cooperativa agricola a prevalenza femminile nel villaggio di Karungu, Kenya sud occidentale. Volge ormai al termine e i primi successi sono sotto gli occhi di tutti. Il gruppo svantaggiato di donne, beneficiarie dell’azione, è stato adeguatameorto donne kurungu 01nte formato per la gestione e lo stoccaggio della produzione agricola. La modernizzazione delle metodologie, l’introduzione di mezzi meccanici ed il supporto tecnico di agrari esperti, ha consentito la messa a coltura di circa 10 acri di terreno, suddiviso in piccoli appezzamenti, secondo un sistema di rotazione delle colture che ne favorisca la produttività. Nello specifico, mais e fagioli sono stati piantati in oltre quattro acri di terreno, garantendo rispettivamente un raccolto di 320 Kg e oltre 1.400Kg. Le cipolle hanno dato ugualmente un ottimo risultato – si parla di 62 Kg – ed è prevista la messa a coltura di un altro acro di terreno. I pomodori sono stati piantati all’interno e all’esterno del suolo adiacente la serra, che è stata realizzata per una produzione intensiva di pomodori. Allo stesso modo, cocomeri e piante di banano sono nel fiore della loro crescita e lasciano preannunciare un ottima stagione.

Inoltre, la costruzione di un sistema d’irrigazione fa sì che tutti i prodotti fin qui elencati, siano disponibili durante tutto l’anno e ampiamente commercializzati, sia al dettaglio che all’ingrosso.

Si è dunque passati da una produzione agricola, di mera sussistenza, ad una produzione intensiva orientata alla vendita, sostenibile nel tempo e generatrice di reddito per le donne coinvolte. In questo modo, contribuiremo gradualmente a migliorare gli standard di sicurezza alimentare dell’intera comunità di riferimento, incidendo positivamente sulla loro qualità di vita. Il progetto è stato co-finanziato dalla CEI (Conferenza Episcopale Italiana) a cui vanno i nostri più sentiti ringraziamenti.

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Natale… un altro Natale viene a visitare le nostre vite

Cresciuta con il buio delle sere di dicembre, tra le luci delle vie, gli addobbi dei negozi, quel freddo che taglia il viso e che fa “bambinello al freddo e al gelo”, rifletto su questo Natale che attendo oggi nelle soleggiate e calde giornate della stagione secca, nel cuore dell’Africa, mentre la polvere rossa delle strade già si solleva penetrando ovunque e la savana è tutto un accendersi di fuochi per farsi strada tra l’erba altissima e poter andare a caccia.

Natale in questo momento per me è un giorno che si avvicina ogni mattina, quando inizio il mio lavoro in ospedale e scrivo la prima prescrizione della giornata: una data nuova, che segna lo scorrere dei giorni, lì dove non ho nemmeno un calendario… poi le mie giornate trascorrono tra il caldo e l’essenzialità, tra i miei malati, tra la gente di Bossemptélé. Nulla sembrerebbe ricordare il Natale, farne vivere l’attesa. Qui non ci sono alberi di Natale né luci per le strade, ma con entusiasmo la gente alla parrocchia prepara il suo piccolo, essenziale presepe. Natale c’è, in quel segno di un uomo e di una donna che contemplano un neonato, dei pastori che li circondano. In realtà Natale c’è, molto più qui che altrove, c’è e sarà un’esplosione di gioia viva e vera in una notte che palpiterà all’unisono con il tam tam dei tamburi per tutto il villaggio, i Mussulmani a fare festa con i Cristiani.

Mi chiedo che cosa voglia dire allora il presepe, quell’unico segno che mi richiama il mio Natale di sempre,  per questa gente d’Africa, per questa gente che vive in misere capanne di fango, che la sera si raccoglie attorno ad un lume a petrolio, che dorme per terra su una stuoia, che perde i propri figli per la malaria, che viene consumata da un virus spietato etichettato con tre lettere che sono una condanna e una ghettizzazione, che va a farsi curare dallo stregone. Me lo chiedo e cerco di capire, perché la luce dei loro occhi mi dice che possiedono più di chiunque altro la consapevolezza del senso custodito tra quelle statuine. E mi ritrovo davanti a me gli occhi dolci di Daniel, affannato e sofferente mentre gli faccio gli antibiotici per vena nella penombra della sua capanna e mi dice che faceva pregare i suoi bambini a scuola ogni mattina perché mandasse un medico in questa terra, vedo gli occhi ridenti di Karim, che non c’è già più, che aspettava rannicchiato su una panchina dalle sei del mattino all’ospedale perché aveva deciso di farsi curare, ora che c’è “Docteur”, vedo lo sguardo smarrito e nello stesso tempo grato di Sylvie, che sa che non sarà sola a portare avanti il peso di una gravidanza in una condizione di sieropositività appena scoperta, vedo quello di Youssafà, orfanello di 3 anni, accoccolato senza forze per terra, in attesa disperata di un donatore compatibile che gli salvi la vita e quello implorante del suo nonno, vedo quello radioso di Stephanie, bimba sieropositiva di 2 anni, mentre tiro fuori dalla tasca del mio camice una caramella, vedo quella luce nello sguardo di Sylvain, infermiere di villaggio, quando mi ha chiesto quanti mesi sarei rimasta a lavorare con loro all’ospedale: “Sono venuta per rimanere”, ho risposto allora con dolcezza. “Gloria a Dio!” ha esclamato lui esplodendo di gioia. “Gloria a Dio”. Era agosto, ma io ho pensato al Natale, al canto degli angeli, al loro annuncio ai altro natalepastori. Mi sono soffermata a lungo a riflettere su quelle parole che mi avevano velato lo sguardo con due lacrime di commozione. “Gloria a Dio” me lo hanno insegnato tutti questi sguardi: è l’accogliere con gioia un dono, un dono di Dio… o un Dio che si fa dono.

Sì, Natale risplende più che mai per questa gente, gli occhi di Daniel, di Karim, di Sylvie, di Youssafà, di Stephanie, di Sylvain, brillano tutti della stessa gioia, una gioia che interpella, davanti all’annuncio del Natale, è il sapersi visitati dalla speranza, scoprire la condivisione, assaporarne il gusto e sentirsi privilegiati come nessun altro per quello che si è ricevuto. Me lo insegna la gente di Bossemptélé: c’è un Dio che si fa bambino come questi bambini coperti di stracci che ridono e corrono nei cortili in mezzo ai pulcini e alle caprette, un Dio che condivide le fatiche di ogni giorno, ma anche le gioie dell’uomo, un Dio che regala sogni, un Dio che non abbandona, un Dio che ama… tutti. Ma i poveri non hanno nulla che copra il loro sguardo, sono così poveri che non hanno nulla neanche per questo e allora lo vedono, lo sentono subito, loro lo sanno quanto è privilegiato l’uomo, un uomo che possiede un Dio che si fa bambino e che gioca ridendo tra i pulcini e le carpette, un Dio che incrocia il suo sguardo innamorato con quello dell’uomo.

Sì, “Gloria a Dio” in questa notte, Gloria ad un Dio meraviglioso, ad un Dio innamorato dell’uomo.

BUON NATALE!

Francesca

Auguri Natalizi

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