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Natale… un altro Natale viene a visitare le nostre vite

Cresciuta con il buio delle sere di dicembre, tra le luci delle vie, gli addobbi dei negozi, quel freddo che taglia il viso e che fa “bambinello al freddo e al gelo”, rifletto su questo Natale che attendo oggi nelle soleggiate e calde giornate della stagione secca, nel cuore dell’Africa, mentre la polvere rossa delle strade già si solleva penetrando ovunque e la savana è tutto un accendersi di fuochi per farsi strada tra l’erba altissima e poter andare a caccia.

Natale in questo momento per me è un giorno che si avvicina ogni mattina, quando inizio il mio lavoro in ospedale e scrivo la prima prescrizione della giornata: una data nuova, che segna lo scorrere dei giorni, lì dove non ho nemmeno un calendario… poi le mie giornate trascorrono tra il caldo e l’essenzialità, tra i miei malati, tra la gente di Bossemptélé. Nulla sembrerebbe ricordare il Natale, farne vivere l’attesa. Qui non ci sono alberi di Natale né luci per le strade, ma con entusiasmo la gente alla parrocchia prepara il suo piccolo, essenziale presepe. Natale c’è, in quel segno di un uomo e di una donna che contemplano un neonato, dei pastori che li circondano. In realtà Natale c’è, molto più qui che altrove, c’è e sarà un’esplosione di gioia viva e vera in una notte che palpiterà all’unisono con il tam tam dei tamburi per tutto il villaggio, i Mussulmani a fare festa con i Cristiani.

Mi chiedo che cosa voglia dire allora il presepe, quell’unico segno che mi richiama il mio Natale di sempre,  per questa gente d’Africa, per questa gente che vive in misere capanne di fango, che la sera si raccoglie attorno ad un lume a petrolio, che dorme per terra su una stuoia, che perde i propri figli per la malaria, che viene consumata da un virus spietato etichettato con tre lettere che sono una condanna e una ghettizzazione, che va a farsi curare dallo stregone. Me lo chiedo e cerco di capire, perché la luce dei loro occhi mi dice che possiedono più di chiunque altro la consapevolezza del senso custodito tra quelle statuine. E mi ritrovo davanti a me gli occhi dolci di Daniel, affannato e sofferente mentre gli faccio gli antibiotici per vena nella penombra della sua capanna e mi dice che faceva pregare i suoi bambini a scuola ogni mattina perché mandasse un medico in questa terra, vedo gli occhi ridenti di Karim, che non c’è già più, che aspettava rannicchiato su una panchina dalle sei del mattino all’ospedale perché aveva deciso di farsi curare, ora che c’è “Docteur”, vedo lo sguardo smarrito e nello stesso tempo grato di Sylvie, che sa che non sarà sola a portare avanti il peso di una gravidanza in una condizione di sieropositività appena scoperta, vedo quello di Youssafà, orfanello di 3 anni, accoccolato senza forze per terra, in attesa disperata di un donatore compatibile che gli salvi la vita e quello implorante del suo nonno, vedo quello radioso di Stephanie, bimba sieropositiva di 2 anni, mentre tiro fuori dalla tasca del mio camice una caramella, vedo quella luce nello sguardo di Sylvain, infermiere di villaggio, quando mi ha chiesto quanti mesi sarei rimasta a lavorare con loro all’ospedale: “Sono venuta per rimanere”, ho risposto allora con dolcezza. “Gloria a Dio!” ha esclamato lui esplodendo di gioia. “Gloria a Dio”. Era agosto, ma io ho pensato al Natale, al canto degli angeli, al loro annuncio ai altro natalepastori. Mi sono soffermata a lungo a riflettere su quelle parole che mi avevano velato lo sguardo con due lacrime di commozione. “Gloria a Dio” me lo hanno insegnato tutti questi sguardi: è l’accogliere con gioia un dono, un dono di Dio… o un Dio che si fa dono.

Sì, Natale risplende più che mai per questa gente, gli occhi di Daniel, di Karim, di Sylvie, di Youssafà, di Stephanie, di Sylvain, brillano tutti della stessa gioia, una gioia che interpella, davanti all’annuncio del Natale, è il sapersi visitati dalla speranza, scoprire la condivisione, assaporarne il gusto e sentirsi privilegiati come nessun altro per quello che si è ricevuto. Me lo insegna la gente di Bossemptélé: c’è un Dio che si fa bambino come questi bambini coperti di stracci che ridono e corrono nei cortili in mezzo ai pulcini e alle caprette, un Dio che condivide le fatiche di ogni giorno, ma anche le gioie dell’uomo, un Dio che regala sogni, un Dio che non abbandona, un Dio che ama… tutti. Ma i poveri non hanno nulla che copra il loro sguardo, sono così poveri che non hanno nulla neanche per questo e allora lo vedono, lo sentono subito, loro lo sanno quanto è privilegiato l’uomo, un uomo che possiede un Dio che si fa bambino e che gioca ridendo tra i pulcini e le carpette, un Dio che incrocia il suo sguardo innamorato con quello dell’uomo.

Sì, “Gloria a Dio” in questa notte, Gloria ad un Dio meraviglioso, ad un Dio innamorato dell’uomo.

BUON NATALE!

Francesca