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Una nuova casa per Feri, Gregorius, Marcelus, Petrus e Hieronimus

Feri, Gregorius, Marcelus, Petrus e Hieronimus: sono i nomi dei cinque beneficiari bisognosi ed appartenenti a famiglie povere aiutati grazie al MicroProgetto, appena concluso,  finanziato da Caritas Italiana e in collaborazione con i Missionari Camilliani a Maumere (Isola di Flores, Indonesia) per la promozione dell’inclusione sociale delle persone con disabilità mentale.

Il progetto nasce per contrastare la pratica del “Pasong”, applicato a molte persone che soffrono di problemi di  salute mentale e che, a causa di questi ultimi, hanno spesso comportamenti violenti. Nello specifico la pratica consiste in un inumano metodo di reclusione, costringendo le persone a vivere segregate e incatenate con un piede bloccato tra due grossi assi di legno o tronchi di albero.
Nonostante la legge indonesiana sulla salute mentale preveda un’assicurazione governativa per le persone indigenti, sussiste ancora la credenza che i guaritori tradizionali siano più efficaci di un medico e di un ricovero in ospedale. Inoltre, l’amministrazione locale non dispone di programmi di assistenza e si limita a mandare sporadicamente dei medici per visitare i malati fornendo loro solo qualche medicinale.

L’intervento pertanto si è concentrato sul miglioramento delle condizioni e della qualità di vita delle persone con disabilità mentale e delle loro famiglie, per garantire il loro graduale reinserimento all’interno della comunità di appartenenza e la possibilità di vivere in una situazione più dignitosa.
Per raggiungere questo scopo sono state costruite delle “casette” speciali, ovvero un ambiente dedicato ai loro bisogni primari, realizzato vicino alle abitazioni dei familiari, in modo tale che gli stessi possano prendersene cura a tutti gli effetti.
Inoltre, è stato introdotto un programma riabilitativo che ha previsto delle visite domiciliari periodiche da parte di volontari appositamente formati per supportare moralmente e psicologicamente i malati e le loro famiglie. Tali visite, effettuate due volte al mese, rappresentano un sostegno significativo con l’obiettivo di migliorare le dinamiche relazionali familiari, che sono gravate e/o sconvolte dal vissuto della malattia.
In ultimo, la comunità di riferimento è stata formata e sensibilizzata in materia di salute mentale per contrastare la pratica del Pasong. La campagna di sensibilizzazione intrapresa ha avuto come focus primario il contrasto al pregiudizio sul disagio mentale, diffondendo fra i membri delle comunità una corretta informazione riguardo i problemi di salute mentale per superare la discriminazione e favorire l’inclusione sociale delle persone affette da disturbi mentali.

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Le Storie dei Beneficiari

Vi presentiamo ora le storie dei beneficiari del MicroProgetto.
Petrus ha 72 anni e ha lavorato come pescatore fino al momento in cui ha manifestato sintomi di disturbi mentali, circa 21 anni fa. A causa della povertà familiare e per mancanza di strutture sanitarie appropriate nell’isola, la famiglia ha pensato che la medicina migliore fosse quella di fargli applicare il metodo tradizionale del “Pasong”. I familiari hanno accolto con profonda gratitudine l’aiuto offerto ed ora può assicurare al loro caro più attenzione, amore e dignità.

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Hieronimus 36 anni è malato da cinque anni. I locali raccontano che un giorno, dopo essersi nutrito di un pesce misterioso, Hieronimus abbia iniziato a manifestare segni di disturbi mentali divenendo molto violento e aggressivo verso i familiari e i vicini. Per tale motivo è stato isolato e a causa della sua robusta corporatura per impedire che potesse liberarsi, gli sono stati bloccati entrambi i piedi. L’anziana mamma si è presa cura di lui per i lunghi cinque anni di prigionia e ha espresso una profonda e commovente gratitudine per l’amorevole attenzione e carità manifestate al suo figlio.

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Gregorius soffre di disturbi mentali da circa 20 anni, dopo essersi trasferito per lavoro in Papua Nuova Guinea dove ha vissuto in condizioni di vita molto disagevoli. Rientrato in famiglia, la sua salute non ha conosciuto segni di miglioramento, diventando aggressivo e talvolta pericoloso soprattutto verso i minori. La famiglia si è trovata quindi costretta a isolarlo in una misera capanna e applicargli il metodo del Pasong. Arrivando il momento della liberazione, anche in lui è riapparsa sul volto la gioia e, sicuramente, tanta sorpresa nel trovarsi ora in una residenza nuova, pulita, con un letto e un servizio igienico tutto suo.

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Marcelus ha 26 anni e da 10 anni viveva con una catena al polso. Spesso scompariva dalla famiglia e vagava per i villaggi senza farvi ritorno per giorni. Ciò ha costretto i suoi familiari a bloccarlo con una catena e rinchiuderlo in una misera capanna. La sua liberazione con il taglio della catena è stata un momento commovente di umanità per lui e un sollievo morale per la sua famiglia che ora lo vede libero.

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Feri, invece, era legato con una catena al polso da 5 anni. Prima della malattia ha lavorato per otto anni come contadino in Malaysia ma le dure condizioni di vita e forse qualche compagnia poco seria hanno causato i suoi primi disturbi mentali. Così è stato costretto a rientrare in famiglia, dove sono continuati momenti di aggressività uniti a perdite di memoria. I familiari sono stati costretti a legargli una catena al piede e limitargli gli spazi di movimento. In tale situazione il suo letto, giorno e notte, era la tomba di un suo caro defunto. La nuova casa di Feri ora è motivo di sollievo per la famiglia e luogo di sicurezza per i vicini che, a volte, erano preoccupati per i loro bambini in pericolo di gesti di aggressione.

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Progetto Latte Sano: aggiornamento dall’Africa Subsahariana

A Bagrè, in Burkina Faso, continua il progetto “Latte Sano” nel rispetto delle norme di sicurezza imposte dall’emergenza Covid-19. Il progetto, grazie al finanziamento della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), prevede la costruzione di una stalla per sessanta mucche da latte e la realizzazione di una centrale del latte, con la conseguente produzione e distribuzione di latte fresco e prodotti caseari.

Il latte è un elemento fondamentale e prezioso per la crescita e lo sviluppo dei bambini. Tuttavia, a causa del clima secco e caldo che caratterizza questa zona, diventa sia un alimento difficile da produrre (vista la mancanza di foraggio per il bestiame) sia di difficile mantenimento, diventando così vettore di malattie.
Per rispondere a questi problemi, il progetto prevede la realizzazione di una latteria sociale per garantire la disponibilità di latte fresco pastorizzato per la popolazione locale con un’attenzione particolare agli alunni delle scuole primarie del distretto e alle strutture sanitarie collocate nel territorio.

La seconda fase del progetto prosegue con la costruzione della stalla per la stabulazione delle mucche da latte e uno spazio dedicato alla mungitura, che sono quasi ultimate.
Sono recentemente arrivate le sessanta mucche da latte con i loro vitelli. L’Africa subsahariana presenta delle difficoltà nel reperimento di questi animali: in Burkina Faso non esistono razze che producono una quantità elevata di latte. Per questo motivo, abbiamo preso parte ad un programma di miglioramento della razza, diretto da alcune università, che prevede il sostegno tecnico e scientifico per l’alimentazione e la sanità dell’animale.
Su consiglio degli esperti abbiamo acquistato animali provenienti dal Niger, una zona non esente da difficoltà. Dopo tre giorni di viaggio, gli animali sono arrivati presso le nostre stalle e hanno svolto un periodo di quarantena precauzionale. La gestione degli animali è stata delegata ai veterinari del consorzio di miglioramento delle razze che si occuperanno della loro salute.

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Abbiamo già ultimato la centrale del latte, in cui il latte sarà lavorato e confezionato. Le prossime fasi che affronteremo riguarderanno la realizzazione dei percorsi formativi teorico/pratici con la modalità del training on the job, al fine di trasferire competenze tecniche agli allevatori e i produttori locali. Inoltre, saranno fornite nozioni essenziali rispetto alla gestione degli allevamenti (alimentazione, norme igieniche, tecniche per la produttività etc) e all’utilizzo dei nuovi macchinari.

Infine, sarà creato un consorzio tra i produttori locali, generando un circolo virtuoso per il progresso del territorio. Saranno commercializzati i prodotti sui mercati locali, assicurando cibo di qualità ed accessibile anche alla popolazione più povera dell’area di intervento.

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Covid-19: quali criticità nel continente africano?

Il virus Covid-19 ha ormai raggiunto tutti gli Stati africani, ma resta ancora l’interrogativo su come l’epidemia si diffonderà nel continente. Sono ancora troppo pochi i dati a disposizione e troppi i fattori che incidono sulla sua evoluzione: climatici, genetici, sociologici e demografici.
L’organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS) ha dichiarato che i Paesi del continente ad oggi – 5 aprile – più colpiti sono quelli all’estremità: il Sudafrica con (1585 casi e 9 decessi), l’Egitto (1173 casi e 78 decessi), l’Algeria (1320 casi e 152 decessi).

Tuttavia, prevedere i contagi e l’andamento dei dati è pressoché impossibile in un continente che ospita la maggior parte degli Stati con i più bassi Indici di Sviluppo Umano (ISU), dove in alcuni Paesi ci sono solo 5 medici ogni 100.000 persone. Si può invece ragionare sulle criticità che i territori africani possiedono e porterebbero ad aumentare in modo esponenziale la propagazione del virus.
Riflettiamo: possono essere adottate anche da questi Stati le raccomandazioni dell’OMS e le misure di contenimento che ad oggi stanno adottando gli Stati europei? In alcune aree esse sono di difficile attuazione, se non controproducenti.

– “Lavare spesso le mani”

Pensiamo banalmente a questa semplice norma igienica. In che modo può essere adottata in zone dove non vi è la possibilità di reperire facilmente acqua? Questa mancanza implica da un lato uno spostamento delle persone per raggiungere i pozzi o centri di distribuzione e dall’altro la formazione di aggregazioni per poterla raccogliere.

– “Evitare contatti ravvicinati, mantenendo la distanza di almeno un metro”
La possibilità di auto-isolarsi risulta ardua e controproducente. Negli slums, dove le distanze tra una baracca e l’altra difficilmente raggiunge i due metri di distanza e in cui la densità di popolazione è elevata, com’è possibile evitare il contagio? Inoltre, lo stile di vita all’interno dei villaggi è basato sulla comunità e il concetto di famiglia è differente: una famiglia che vive nella stessa abitazione è composta normalmente oltre dal nucleo madrepadre e figli, anche da zii e cugini. Il rischio di contagio è quindi raddoppiato.

“Usare la mascherina se si sospetta di essere malati. Pulire le superfici con disinfettanti a base di cloro o alcol”
La maggior parte degli Stati riceve materiale medico dall’estero, non avendo una produzione interna e in questo momento di crisi globale le risorse hanno difficoltà a raggiungere determinati luoghi a causa delle spedizioni fortemente ritardate e per la mancanza di disponibilità numerica.
Inoltre, le attrezzature mediche già presenti negli Stati non sono sufficientemente adeguate ed avanzate per poter affrontare un numero di contagi come in Italia o negli Stati Uniti. In molti Paesi le strutture sanitarie non sarebbero in grado di assistere un numero elevato di pazienti: in Kenya, ad esempio, esistono solo 155 posti letto in terapia intensiva, in Sud Sudan sono pari a zero e non esistono fondi statali o privati in grado di sopperire a questa mancanza.
Adhanom Ghebreyesus, il direttore generale dell’OMS, ha avvertito che “se il virus dovesse arrivare nelle metropoli africane come Lagos, Addis Abeba o Il Cairo, visto anche il livello di povertà e la carenza di strutture ospedaliere, il contagio diventerebbe una catastrofe”.

– “Se si hanno sintomi simili all’influenza rimanere a casa”
Le infezioni respiratorie sono molto diffuse e sono una delle principali cause di morte; i sintomi sono tuttavia simili all’infezione da Covid-19 e non sarebbe possibile senza esami specifici distinguere polmoniti dovute ad infezioni “normali” e quelle causate da Coronavirus, rendendo più difficile stilare la mappa dei possibili contagi, contenendo la grandezza dell’epidemia.

A queste criticità si aggiungono, inoltre, condizioni di malnutrizione e/o denutrizione, che indeboliscono il sistema immunitario. Anche se non vi sono sufficienti dati che affermino che le persone malnutrite possano essere maggiormente colpite dal virus, sviluppando anche patologie più gravi, il loro sistema immunitario è sicuramente più fragile e compromesso rispetto a una persona in salute.
Altro fattore di problematicità è l’instabilità politica di molti Stati, che rende difficile una risposta pronta ed efficace per limitare la diffusione del virus.
Il dato positivo è invece l’età media della popolazione del continente africano: 18 anni rispetto ai 45 dell’Italia.
Ci sono state altre epidemie, come quella dovuta all’ebola (2014-2016) che ha causato più di 11 mila morti in dieci Paesi, tuttavia tenuta sotto controllo grazie anche ad aiuti esteri; ma oggi con una pandemia in atto è estremamente più complicato per gli Stati fornitori di aiuti umanitari offrire un soccorso ampio, sia dal punto di vista logistico che economico, trovandosi già in difficoltà sul proprio territorio nazionale.

Dopo la dichiarazione di pandemia dell’Oms, i governi africani hanno iniziato ad adottare delle misure di distanziamento sociale, per evitare il propagarsi del contagio: chiusura delle scuole, limitazione di trasporti urbani e interurbani, l’implementazione di coprifuochi, divieto di aggregazione, di feste e riti religiosi. Con esse però sono nati dei forti malumori da parte della popolazione che lamenta il danno economico per la chiusura delle attività.
La fascia più povera della popolazione, attraverso ad esempio la vendita di prodotti presso i mercati, guadagna il giusto per la sopravvivenza quotidiana senza la possibilità di creare un risparmio. In Kenya si sono creati disordini sociali perché la popolazione domanda se le vittime saranno causate dal virus o dalla fame. Altri disordini sono causati dalla caccia agli “untori”, dovuto alla veicolazione di errate informazioni in cui europei e asiatici vengono individuati ed etichettati come portatori del virus nel continente. Diverse violenze verbali o fisiche sono state riscontrate in quasi tutti gli Stati africani, soprattutto in Sud Africa, Ghana e Burkina Faso.

Attualmente un nostro cooperante si trova a Tenkodogo, in Burkina Faso. Nel Paese ci sono più di trecento contagiati, per la maggior parte nella capitale Ouagadougou, componenti dei ceti più ricchi, a contatto con persone proveniente da altri Paesi o che hanno viaggiato recentemente.
Dal 21 marzo, il governo ha adottato misure restrittive sulla scia di quelle cinesi ed europee: sono state chiuse le frontiere, gli aeroporti e limitati gli spostamenti sul territorio nazionale. Sono stati vietati gli assembramenti per un numero maggiore di 15 persone.

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Siamo costantemente in contatto anche con i nostri referenti in Repubblica Centrafricana, dove la situazione per ora è tenuta sotto controllo (8 casi positivi). L’Onu ha inserito questo Stato tra i venti Paesi per i quali è prioritaria l’assistenza internazionale per far fronte all’emergenza Coronavirus, in quanto – in un territorio dall’estensione doppia rispetto a quella dell’Italia – esistono solo tre respiratori.
Presso l’ospedale San Giovanni Paolo II di Bossemptélé sono stati forniti strumenti utili per la protezione del personale sanitario e sono state adottate alcune misure necessarie per prevenire un focolaio. Gli incontri formativi previsti ad aprile, con la partecipazione del personale addetto ai dispensari dei villaggi e i curatori tradizionali, sono stati sospesi e rimandati. Inoltre, al termine dei briefing mattutini, effettuati tutti i giorni per la discussione dei casi del giorno precedente, è stata soppressa la consuetudine di stringere la mano ad ogni collega per augurarsi buon lavoro. Attualmente l’incontro viene effettuato mantenendo la distanza di sicurezza raccomandata dall’OMS ed evitando qualsiasi tipo di contatto.

 

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L’emozione della missione: Mariella

Mariella, ci racconti come ti sei avvicinata al mondo della cooperazione internazionale e del terzo settore?

Al termine dei miei studi superiori in Sardegna, mi sono trasferita a Forlì per continuare la mia formazione. Sono sempre stata interessata a ciò che accadeva nel panorama internazionale e ho scelto così di frequentare il corso di laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche. Durante gli ultimi anni del mio percorso universitario mi sono specializzata nel tema dei diritti umani, discutendo una tesi sulla diversa reazione della comunità internazionale rispetto ai casi del Kossovo e della Cecenia.
Successivamente, mi sono trasferita a Roma per frequentare un master in Tutela internazionale dei diritti umani, svolgendo un periodo di stage presso il Ministero degli Affari Esteri. Durante questa esperienza mi sono avvicinata al mondo delle Organizzazioni Non Governative e vedendone l’operato il mio interesse per il mondo del terzo settore è diventato più forte.
In seguito, ho conseguito un altro master in Project Manager della cooperazione internazionale e durante l’esperienza di stage sono entrata in contatto con Salute e Sviluppo, dove – dopo una parentesi professionale in Spagna – ho iniziato a lavorare stabilmente.

Di cosa ti occupi a Salute e Sviluppo?

Mi sono fin da subito occupata di progettazione e gestione dei progetti, dal 2013 mi occupo anche dell’amministrazione generale di SeS.

Cosa ti è piaciuto di Salute e Sviluppo come organizzazione?

Salute e Sviluppo mi è piaciuta subito sia per l’ambiente lavorativo stimolante e socievole nell’ufficio a Roma, sia per la tipologia di progetti.. sono continuativi nel tempo.
Spesso, una volta ultimato un progetto, manca un controllo successivo sul territorio. La sostenibilità nel tempo dei progetti di Salute e Sviluppo è invece garantita dal fatto che si avvale del supporto e affiancamento dei Camilliani nei vari paesi d’intervento, che – a prescindere dalla durata del progetto – saranno sempre presenti sul territorio per la loro missione, ovvero il sostegno sanitario alle fasce più vulnerabili della popolazione. Con SeS riusciamo a migliorare i loro servizi ospedalieri o costruirne dei nuovi.
Inoltre, apprezzo fortemente lo scambio multiculturale e inter-religioso. Ho osservato durante le missioni come al fianco dei missionari lavorino persone che spesso professano una religione differente. Vi è molto rispetto e stima reciproca, oltre che piena collaborazione.

Cosa ti ha spinta a scegliere di partire per le varie missioni?

Come detto prima, la mia passione per il terzo settore nasce durante il mio percorso universitario, dove mi sono avvicinata a materie che si occupavano di diritti umani. Il passaggio poi è stato naturale: dopo essermi occupata di difesa dei diritti umani, di burocrazia ministeriale, ho capito che avevo bisogno di qualcosa di più. Sentivo l’esigenza di vedere concretamente il lavoro sul campo, conoscere i beneficiari, vedere l’attivazione dei servizi. Posso sintetizzare che i miei occhi avevano bisogno di vedere realizzato ciò che progettavo sulla carta.

Cosa ti emoziona del tuo lavoro?

Mi emoziona vedere il nascere e il concludersi di qualcosa: poter partire in loco e vedere uno spazio in cui non vi è nulla… ritornarci e poterne osservare la trasformazione. Ad esempio, in una delle mie prime missioni, in Benin, mi sono emozionata vedendo – dopo più di un anno dall’inizio del progetto – come un terreno arido e isolato si fosse trasformato in un ospedale.. come funzionasse correttamente e fosse diventato anche centro di aggregazione.
E’ stupendo riscontrare come i progetti di Salute e Sviluppo, grandi o piccoli che siano, impattino concretamente sulla vita dei beneficiari, trasformandola e migliorandola.

Parti per Paesi in cui le condizioni che trovi non sono delle più facili.. E’ faticoso per te?

Sicuramente occorre avere un grande spirito di adattamento. Serve sia per le condizioni di vita quotidiana, sia per le situazioni di solitudine che talvolta bisogna affrontare.
Mi spiego meglio.. quando si parte in missione non si trascorre la maggior parte del tempo in una grande città, dove si ha modo di incontrare cooperanti o persone che svolgono lavori in diversi settori provenienti da Paesi di tutto il mondo. La permanenza nella capitale dura di solito solo qualche giorno. È un momento di passaggio prima di immergermi a 360 gradi nel vero contesto locale.
I nostri progetti si trovano soprattutto nelle aree più fragili e isolate di un Paese.. di conseguenza ci si ritrova in villaggi in cui difficilmente vi sono altri “espatriati” e/o non vi è la sicurezza per poter uscire da soli.

Qual è l’aspetto che ti piace delle missioni?

Senza dubbio l’incontro con la popolazione locale. Nelle grandi città sono abituati all’arrivo e alla presenza di personale straniero, vi è più movimento. Nei piccoli villaggi, che non hanno relazioni con l’esterno, le persone sono accoglienti, gioiose. i bambini sono curiosi, ospitali, vogliono toccarti, chiacchierare e giocare con te.. tutti si salutano, ma soprattutto si sente un forte spirito di comunità in cui tutti si conoscono. È veramente sorprendente sentire questo calore umano.

Qual è il Paese in cui hai trovato difficoltà?

Credo la Repubblica Centroafricana. È uno dei Paesi più poveri al mondo, in cui la difficoltà principale è la mancanza di mezzi per poter lavorare, ma è anche il Paese che più mi è rimasto nel cuore.
Mentre in Burkina Faso oggi vi è un grosso problema di sicurezza. Rispetto alle mie prime missioni, dal 2010 ad oggi ho visto un notevole cambiamento nel Paese: da veramente tranquillo a piuttosto pericoloso per via degli attentati terroristici che dal 2016 colpiscono talvolta la capitale e soprattutto la zona nord ed est della nazione.

Per quanto riguarda gli altri continenti?

Ho svolto missioni in Perù e in Vietnam.
In entrambi i casi mi ha impressionato la stretta convivenza tra standard di vita elevati e la povertà anche più evidente rispetto ad alcuni Paesi dell’Africa. Ad esempio, a Lima, in Perù, questa diversità risalta in maniera prepotente: da un angolo all’altro dello stesso quartiere lo scenario che si incontra cambia completamente.
Anche l’esperienza in Vietnam è stata forte: si passa da metropoli sviluppate e turistiche come Hoc Chi Minh a villaggi nel sud del Paese in cui la povertà è estremamente elevata.

 

 

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Le casette speciali a Maumere per le persone con disabilità mentale

In Indonesia presso l’isola di Flores è stato attivato grazie al finanziamento di Caritas Italiana il progetto “Promuovere l’inclusione sociale delle persone con disabilità mentale” nella città di Maumere.

L’isola di Flores è una tra le più povere isole dell’arcipelago indonesiano. Nonostante l’Indonesia goda di un discreto sviluppo nel settore della salute, le popolazioni che vivono nelle località più remote soffrono di carenze strutturali, mancanza di personale qualificato, di medicine e servizi sanitari. In particolare, l’area della salute mentale è trascurata: i dati forniti dalla Indonesian Basic Health Survey indicano che circa il 6% della popolazione soffre di problemi riguardanti la sfera mentale come depressione, ansia e dipendenze.
I disturbi si traducono in schizofrenia, atti di violenza e disturbi bipolari che conseguentemente portano alla stigmatizzazione e discriminazione delle persone e delle loro famiglie. In questi contesti una pratica molto diffusa è il Pasung, ovvero l’incatenamento della persona per limitarne i movimenti e che porta a sviluppare ulteriori disabilità mentali e fisiche. Le famiglie, per difendersi dagli atteggiamenti aggressivi che le malattie mentali spesso causano, sono solite adottare questa pratica, costringendo la persona a vivere legata e da sola per un lungo periodo, non possedendo altre risorse e mezzi per le cure e il sostentamento.

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Il progetto, che si svilupperà nella città di Maumere, si pone l’obiettivo di sopperire a queste mancanze, intervenendo sulla condizione clinica delle persone con disturbi psichici, attraverso la creazione di un ambiente dedicato a loro e garantendo il reinserimento all’interno della comunità di appartenenza.
Sarà quindi incrementato il numero delle “casette speciali”, create nel 2016 dalla Delegazione Camilliana in Indonesia per accogliere le persone affette da disturbi mentali, che hanno ottenuto risultati positivi nella comunità. Ogni casetta (per un totale di cinque) sarà predisposta per soddisfare le necessità di ogni abitante e saranno costruite accanto alle abitazioni dei familiari.

In questo modo, i beneficiari potranno vivere la quotidianità in maniera serena avendo uno spazio proprio e protetto. Periodicamente, saranno effettuate delle visite domiciliari per supportare moralmente e psicologicamente la famiglia, migliorando anche le dinamiche relazionali al suo interno.

Il secondo obiettivo sarà quello di formare gli operatori sanitari e i membri della comunità sui problemi e sulle necessità di chi soffre di malattie mentali. Sarà anche attivata una campagna di sensibilizzazione contro il pregiudizio sul disagio mentale, veicolando una corretta informazione sulle malattie e la promozione dell’inclusione sociale delle persone indigenti.

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Repubblica Centrafricana: L’Ospedale Giovanni Paolo II di Bossemptélé si rafforza!

Nel mese di dicembre 2019 ha preso il via il progetto di “Rafforzamento dei servizi sanitari dell’Ospedale Giovanni Paolo II di Bossemptélé” in Repubblica Centrafricana. In questa struttura negli anni passati abbiamo attuato diversi progetti di potenziamento, tra cui la costruzione del reparto di neonatologia e l’attivazione dei relativi servizi e la costruzione del reparto di maternità con l’avviamento dei servizi rivolti alle future e neo mamme.
Queste iniziative hanno reso l’ospedale la struttura sanitaria di riferimento per il territorio.

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Per poter incidere ancora più positivamente sui bisogni sanitari e sulla salute della popolazione locale, grazie al finanziamento dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) abbiamo intrapreso questo nuovo progetto che verte sue due componenti principali: il miglioramento delle prestazioni sanitarie e la formazione specialistica del personale.

Migliorare le prestazioni significa aumentare il numero dei pazienti assistiti, il numero mensile degli esami effettuati e la qualità di tali servizi. Per raggiungere questo obiettivo, l’ospedale verrà provvisto di medicinali di vario tipo per trattare in maniera adatta diverse patologie, da quelle più comuni alle più specifiche. Verrà inoltre fornita la strumentazione medica adeguata, come ad esempio lo sfigmomanometro per la misurazione della pressione arteriosa o il glucometro per la misurazione della glicemia; ma anche kit per piccoli interventi chirurgici, bilance e misuratori di altezza che permetteranno di migliorare qualitativamente le visite. Anche il laboratorio di analisi verrà dotato di apparecchiature biomedicali come il contaglobuli, per eseguire il conteggio dei globuli bianchi e dei globuli rossi, o l’analizzatore di chimica clinica e il coagulometro in modo tale da perfezionare le diagnosi e le cure.
Dal punto di vista della formazione specialistica, il personale sanitario locale, che ad oggi risulta avere delle lacune in alcuni ambiti, verrà formato dal personale in missione breve. Gli ambiti di formazione verteranno sulla chirurgia ortopedica, l’anestesia, la neonatologia/pediatria, il laboratorio analisi (con focus su batteriologia) e la diagnostica per immagini, incrementando così il livello di competenze e la qualità dei servizi erogati.

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Il progetto si occuperà anche di potenziare il servizio di clinica mobile, attivato nella precedente iniziativa “Maternità sicura” che ha riscosso molta partecipazione. Il servizio sarà organizzato due giorni a settimana (nello scorso progetto era uno) per rendere maggiormente accessibili i servizi sanitari e psicologici alle comunità dei villaggi più remoti e si passerà da 15 del precedente progetto a 22 villaggi al fine di estendere la copertura a livello territoriale. Per lo svolgimento di tale attività e garantire la sua continuità nel tempo, è previsto l’acquisto di un’ambulanza, che verrà utilizzata anche per il trasporto di casi gravi presso l’Ospedale Giovanni Paolo II.
Saranno inoltre organizzate delle attività di educazione in ambito igienico-sanitario presso i dispensari o i centri di salute pubblica con il particolare coinvolgimento delle donne. I temi che si andranno ad affrontare riguarderanno tra gli altri la nutrizione e la corretta alimentazione, l’allattamento materno e le malattie tipiche dello stato di gravidanza. Sarà dunque riservata particolare attenzione alle tematiche che riguardano la salute materna ed infantile, sottolineando l’importanza di effettuare controlli ginecologici, e ad ogni madre partecipante saranno forniti gli strumenti per evitare alcune malattie più diffuse come la malaria.
Infine sarà formato il personale sanitario presente presso i dispensari e centri di salute della zona, con particolare attenzione agli aspetti della salute materno-infantile e agli stock dei medicinali.

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Rispetto al precedente progetto, si amplierà il bacino di beneficiari del servizio di clinica mobile: da circa 1.260 persone assistite si prevede di raddoppiare tale dato raggiungendo 4.300 persone. Inoltre, anche le attività di sensibilizzazione ed educazione aumenteranno gli utenti coinvolti, passando da 2.280 a 3.500 persone.

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